Si chiude giovedì 7 gennaio la quindicesima edizione della
rassegna Le Mani e l’Ascolto, iniziativa dell’Associazione Fondo Verri promossa in collaborazione con
l’Assessorato alla Cultura del Comune di Lecce.
Una maratona di ascolti che ha coinvolto un pubblico via via sempre più numeroso nonostante l'esiguità dello spazio.
In apertura di serata le canzoni di Marcello Costantini accompagnato al
sassofono da Ennio Brunetta.
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La copertina del poema edito da Musicaos |
A chiudere la serata Elio Coriano con Stella Grande e Vito Aluisi per il
recital da “A nuda voce. Canto per le tabacchine”, raccolta di versi
pubblicata da Musicaos Editore, dedicata alle sei tabacchine che morirono a
causa dell’incendio scoppiato a Calimera, il 13 Giugno 1960, nei magazzini della ditta
Villani e Franzo: Luigia Bianco, Epifania Cucurachi, Lucia Di Donfrancesco,
Assunta Pugliese, Lina Tommasi e Luigia Tommasi.
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Elio Coriano |
Un viaggio in un frammento di
storia della nostra terra che rivive nella rievocazione di Elio Coriano. I
versi ricordano la vita quotidiana, i pensieri, l’epoca del boom economico nel
nostro paese, gli anni ‘60, ma anche la sofferenza, i soprusi, l’oppressione e,
infine, la tragedia. “Questo canto si unisce a quello di una
generazione di salentini che hanno lavorato, anche in condizioni disumane, per
garantire un futuro ai propri figli” scrive Ada Donno nell’introduzione. “Il
Salento era diventata una delle aree più altamente specializzate nella
produzione e la prima lavorazione delle qualità di tabacco levantino, che Rosetta
e le sue compagne avevano imparato a distinguere e a chiamare coi loro nomi
impronunciabili che a loro suonavano come “santujaca”, “peristizza” e
“zagovina”: le più chiare dalle più scure, le più larghe dalle più piccole, le
più ruvide dalle più lisce. Le tabacchine erano manodopera indispensabile:
prima di tutto perché la lavorazione delle foglie richiedeva le mani abili,
leggere e veloci delle donne, meglio se in giovanissima età. Spesso erano
quelle stesse mani che negli altri mesi dell’anno tessevano i propri corredi al
telaio o ricamavano quelli commissionati dalle signore dei paesi. E poi perché
era manodopera docile, che si poteva pagare la metà degli uomini senza dovere
spiegare perché, disposta a piegarsi ad ogni angheria pur di tenersi quel posto.
Molte delle compagne di lavoro di Rosetta provenivano dalle famiglie di coloni
o di braccianti che producevano il tabacco nelle campagne attorno agli opifici.
Con la loro fatica stagionale, precaria e frammentata, d’estate nelle campagne
di raccolta e d’inverno negli opifici, le lavoratrici del tabacco integravano
il reddito familiare. Tale concezione integrativa, a giustificazione della
bassa retribuzione femminile, era stata per secoli lo strumento di
assoggettamento sociale, politico e culturale, nonché familiare, delle donne.
Secondo un criterio indiscusso, infatti, alle donne veniva corrisposto per
legge solo il compenso dello sforzo richiesto dal lavoro in fabbrica o in
campagna. Il corrispettivo economico delle cure domestiche, invece, attività propria
della donna per definizione e destino, veniva integrato nel salario dell’uomo
capofamiglia, al quale soltanto spettava il mantenimento della donna e dei
figli. E caso mai non fosse bastata questa giustificazione, c’era l’altra più
rozza e sbrigativa, comunemente accettata, dell’inferiorità della forza fisica
femminile, del più basso livello d’istruzione e specializzazione e rendimento:
in una parola, della naturale, ineliminabile inferiorità della donna.”