Giovedì 7 settembre al Fondo Verri, dalle 19.00, Ada Donno dialoga con la
scrittrice Rosella Simone, sul libro “Donne oltre le armi” delle
edizioni Milieu.
«Volevo raccontare
vite di “donne d’azione”, che hanno “anche” imbracciato il fucile. Donne che ho
conosciuto e stimato e ho sentito così autentiche da saper rimettere in moto
passioni che non hanno bisogno né di martiri né di eroi». Così Rosella Simone
in un’autointervista spiega i motivi che l’hanno indotta a raccontare tredici
storie di «sovversione e di genere», tredici ritratti umani e politici che
superano i confini di nazioni e continenti, dall’Italia al Nicaragua, dal
Portogallo a El Salvador, dalla Spagna all’Albania. Il filo conduttore degli
incontri è la stessa vita dell’autrice, a tutti gli effetti la quattordicesima
storia di questo complesso, multiforme, lutulento, incredibile collage. La
tensione politica si mescola a ricordi, viaggi, amori, abbandoni, sogni animati
dal desiderio di capovolgere tutto in quegli anni Sessanta e Settanta ancora
poco esplorati. «Vite per la prima volta fuori dagli schemi – dice Rosella,
giornalista, scrittrice e attivista politica –. Mi infastidiva l’idea che
venissero ingabbiate dentro stereotipi, della feroce terrorista o dell’eroica
guerrigliera. Sono invece donne dalla umanità sfaccettata, a cui le interviste
restituiscono la forza dell’oralità, diventando poi racconti in prima persona».
Chi sono dunque
queste Donne oltre le armi - come s’intitola il libro delle edizioni
Milieu - che da epoche e angoli diversi del mondo con dolente sincerità si
espongono, «rivendicando il diritto a una biografia degli sconfitti»?
Cinque sono italiane:
Enza Siccardi (anarchica), Susanna Ronconi (Prima linea), Nadia Ponti (Brigate
rosse), Franca Salerno (Nuclei armati proletari), Emanuela “Kit” Bertoli
(Autonomia operaia); una è tedesca, Petra Krause (internazionalista); due sono
spagnole, Marisa e Aitana, nomi scelti nella clandestinità per lottare con il
Frap (Frente Republicano y Patriotico) contro il regime di Francisco Franco;
una è nicaraguense, Sylvia Ruth Torres (Frente sandinista); una salvadoregna,
Maria Delia Cornejo (Frente Farabundo Martí). Ancora, ci sono Diana Chuli,
scrittrice albanese che ha vissuto sotto il regime spietato di Enver Hoxha e
Clara Queiroz, biologa portoghese che ha conosciuto l’insidiosa dittatura di
Salazar. Infine, c’è la comandante Nesrin Abdullah, 36 anni, che fa parte
dell’Ypj (Unità di difesa delle donne) e sta combattendo contro il Daesh a
Rojava, nel Kurdistan siriano.
Rosella parte da sé, dalla
sua infanzia di bambina cattiva che distruggeva le bambole, dalla vita
bohémienne genovese, dal compagno Giuliano Naria, prototipo dell’operaio massa
rivoluzionario, «da quell’utopia di riscatto che chiamavo comunismo […] Con
quel furore di giovinezza che trasformava il mondo, lo inceneriva per rifarlo
da capo, irridente e giusto».
E il racconto della sua vita, tra arresti e
difesa dei detenuti politici, avventure on the road e collaborazioni
giornalistiche, fino all’impegno per la causa curda, si snoda attraverso i
decenni, lasciando spazio alle interviste scritte con uno stile immediato e
coinvolgente. «Alcune di queste donne sono mie amiche – spiega -, altre le ho
appena sfiorate, ma tutte sono in vario modo legate alla mia vita e per questo
la storia dei nostri incontri accompagna le storie che loro mi raccontano con
gli occhi di oggi e le parole di ieri.»
È possibile
individuare due piani, strettamente intrecciati, uno più esistenziale, con
lacerazioni, amori difficili e tumultuosi, figli nati in carcere, talora
abbandonati per lunghi periodi, sempre cercando di aderire al miraggio del
cambiamento e all’urgenza della lotta con un’enorme, magari ingenua, spesa di
sé. L’altro, più politico, con analisi, date, escalation di violenze e di
repressione, dove la drammaticità dei fatti, dei morti entra prepotentemente
nelle vite. «Se la scelta che hai fatto non aiuta a cambiare, è lei che cambia
te», dice Nadia Ponti, irriducibile, alle spalle 22 anni di carcere e 11 di
semi libertà. «Vite addolorate», le definisce Cristina Morini, presentando il
libro. E questo si attaglia soprattutto alle narrazioni italiane, dove i sogni,
pieni di macerie, sono spesso diventati brutti sogni. Sono storie molto lontane
l’una dall’altra, una distanza non solo geografica. C’è chi ha combattuto una
guerra di popolo, come Maria Delia Cornejo in Salvador dove «per molte donne
andare con la guerrilla in montagna era molto meno pericoloso che rimanere
esposte allo strapotere dei militari» e chi come Susanna Ronconi, dopo la militanza
in Prima linea e l’esperienza della dissociazione, sostiene che «togliere la
via a un essere umano vuole dire superare un tabù morale […] È una frattura che
non ha eguali». E oggi riconosce che nella sua storia è stata una certa idea di
conflitto a dettare le regole dell’etica, mentre adesso sa che è necessario
fare il contrario.
Le armi non sono mai
un feticcio: se la spagnola Marisa ha lottato contro il fascismo, ha usato
documenti e nomi falsi, è stata in carcere, in clandestinità «ma non ha mai
partecipato a gruppi di fuoco», Aitana invece, come lei militante del Frap,
prende parte alle recuperaciones (espropri armati), scoprendo di non avere
paura, fino a quando il partito, alla fine degli anni Settanta, non decide con
paternalismo maschilista che le donne non sono adatte a questo tipo di azioni.
E la nicaraguense Silvias Ruth Torres sdrammatizza con poche parole la
mitologia dell’eroica guerrigliera, confessando di essersi salvata per troppe
lacrime dalla clandestinità («al momento di lasciare tutto per andare in
montagna con il Frente sandinista de Liberacion nacional mi aveva preso la
lloralera, una crisi di pianto esagerata») e per troppa allegria dall’assaltare
banche («non riuscivo a dire “questa è una rapina” senza scoppiare a ridere»).
Le storie della scrittrice albanese Diana Chuli e della biologa portoghese
Clara Queiroz, sono in questo senso differenti: entrambe si sono misurate con
regimi dittatoriali, di sinistra o di destra, restando sempre intellettuali
scomode per il potere, ma senza assumere una contrapposizione frontale («anche
se mi ritengo incapace di premere un grilletto, il mio appoggio alla lotta di
liberazione per le colonie fu totale», dice Clara).
Per quasi tutte le
altre il carcere è un passaggio obbligato dove s’impara a condividere i destini
con le compagne di cella. Due, tre, quattro, vent’anni passati fra le sbarre,
non di rado messe in isolamento, alle volte incastrate dalle delazioni di un
pentito e infine assolte, come accade all’anarchica Enza Siccardi, che
ironicamente si definisce «bombarola mancata»; altre volte protagoniste di
clamorose evasioni, come Franca Salerno nel 1977 o Susanna Ronconi nel 1982. E
Nadia Ponti, che non si è mai pentita né dissociata - pur essendo convinta che
«quando un’organizzazione clandestina si frantuma ha esaurito la sua funzione»
- in galera sceglie di non usufruire di alcun beneficio previsto dalla legge
penitenziaria ma chiede di poter trascorrere 45 giorni all’anno accanto al
marito, Vincenzo Guagliardo.
Una «battaglia dei
sentimenti» che li mantiene in vita, crea tra loro una fusione tale da «sognare
uno per l’altra», anche se questa difesa del loro rapporto viene vista da molti
compagni come un’ingenuità, un tradimento tour court della politica, un
vergognoso ritirarsi nel personale. In carcere nascono figli: nel 1976 Enza
Siccardi partorisce davanti a tre poliziotti seduti a un tavolo un bambino che
chiamerà Vanja e rivedrà soltanto dopo due anni, e anche Antonio, il figlio di
Franca Salerno, morto sul lavoro nel 2006, è nato dietro le sbarre. Figli
perduti nel caso di Maria Delia Cornejo, che dopo aver cercato di allevarli
nella clandestinità («la cosa più orribile che ci sia») deve separarsi da loro.
Lei che imbracciava un M16 e non voleva sottostare al marito, il comandante, ma
essere una combattente a tutti gli effetti. E ora dice «Ho perso molto nella
guerra: mio marito, i miei figli e mia madre, morta mentre ero al fronte».
Perché i figli, «sequestrati» dal compagno cui li aveva affidati, non
perdoneranno mai la sua scelta di militanza.
C’è una dimensione di
schiacciamento della maternità, dell’amore, ma i fatti nudi e crudi sono per
forza riduttivi, non rendono l’idea di queste vite attraversate da mille
progetti, movimenti di liberazione da una parte all’altra del mondo, vagabondaggi,
sempre con il desiderio di cercare se stesse, sovvertire la propria condizione,
lontane da un’etica sacrificale come da una visione eroica. Che non dimentica i
tempi morti, le attese, la solitudine, i tradimenti. Una storia si rispecchia
nell’altra e al tempo stesso emergono mille differenze, anche della classe di
provenienza, la media borghesia agiata di Susanna Ronconi o il background
intellettuale di Clara Queiroz, accanto all’estrazione operaia di Nadia Ponti,
figlia di un partigiano delle Brigate Garibaldi, o alla famiglia povera ma
«onorata» di Sylvia Ruth Torres, costretta a sei anni a diventare una
bambina-serva. Che sostiene: «è per quella povertà senza scampo che affitta i
figli perché possano mangiare che sono andata con la guerriglia…»
Non c’è mai
l’emulazione del maschio in queste biografie: «Nessuna delle donne che ho
intervistato si è sognata per giustificare le proprie scelte di affermare: l’ho
fatto per seguire un uomo», scriveRosella Simone. Piuttosto l’incontro con il
femminismo è un pezzo importante della vita di quasi tutte: così, ad esempio,
Emanuela “Kit” Bertoli, dopo il 1977 abbandona definitivamente l’Autonomia «non
solo per la sua deriva estremista ma anche perché era una scelta che saltava
piè pari tutti i temi che le donne avevano sollevato dentro i gruppi e i
movimenti e infatti siano uscite in massa». C’è consapevolezza dello scarso
rispetto che i cosiddetti «uomini nuovi» hanno per le «donne nuove» e del
perdurare di atteggiamenti maschilisti e di stereotipi. «Una donna che sceglie
di combattere non è una madre», dice dolorosamente Maria Delia, mentre Sylvia
Ruth esce dal Frente perché si accorge che le donne forti e autonome potevano
essere considerate buone militanti ma non buone spose.
E adesso? Molte di
queste donne hanno trovato una propria autonomia in una dimensione di socialità
e impegno: l’indomita Enza, autrice della biografia Sarà un filo di seta nero,
ha acquistato un villaggio diroccato per farne un centro rurale di aggregazione
politica e culturale, Susanna è formatrice e ricercatrice nei campi del lavoro
sociale e delle marginalità, “Kit” lavora con Médecins Sans Frontières in zone
d’emergenza, Maria Delia ha fondato il Movimiento de Mujeres “Las Melidas”,
Clara diffonde in Portogallo biografie di donne che hanno dedicato la loro vita
alla ricerca di una libertà femminile…
È questo un libro
importante, forse necessario, anche se mi è impossibile condividerne i
presupposti, ovvero l’idea che la donna d’azione, magari armata, sovverta
l’ordine patriarcale dei generi. «Perché segna la fine dell’innocenza ma anche
l’assunzione di responsabilità delle scelte operate sino in fondo, e senza
giustificazioni postume», scrive Rosella. Un’aggressività agita dalle donne che
va attraversata e riconosciuta per poterla superare. E che è servita per
spostare simbolicamente il paradigma uomo cacciatore/donna preda. Ma questa
interpretazione tralascia del tutto il tema imprescindibile del tessuto sociale
in cui avviene il conflitto. È sicuramente audace paragonare una lotta di
popolo ai cosiddetti Anni di Piombo italiani, anche se ci sono stati momenti in
cui la durezza dello scontro pareva inevitabile. E in ogni caso questa analisi
non coglie il rischio da parte delle donne di soccombere, nonostante la loro
risolutezza e determinazione, a una postura e a un immaginario maschili. La
responsabilità del gesto poi non esclude l’etica e la politica non può mai
sovvertirne le regole.
5 giugno 2017