Vittorio Pagano in un disegno di Santa Scioscio tratto da una fotografia del poeta |
L'edizione numero tredici de le Mani e l'Ascolto è dedicata a
"L'altro Vittorio. Pagano l'irregolare"
"L'altro Vittorio. Pagano l'irregolare"
"Oreste Macrì parla dei “due Vittorio gitani” (il pitagorico ispanico Bodini e il leccese-barocco Pagano) nella sua prefazione a L’ora di tutti di Maria Corti (Bompiani, 1997).
(...) Nel secondo dopoguerra, nella città dove ha scelto dolorosamente di restare, Vittorio Pagano avverte presto l’ombra del disincanto dopo gli anni delle speranze di rinascita civile e intellettuale. Il riformismo senza riforme, le ricadute, soprattutto al Sud, del cosiddetto miracolo economico. In un quadro sociale angusto e in un sistema politico bloccato, agli intellettuali si richiedono o conformismo o appartenenze. In un tempo di povertà, in cui cresce il deserto, la poesia non riesce più a essere un linguaggio di redenzione, si rifugia in un esercizio calligrafico privato, è poesia d’occasione, poemetto conviviale, traccia personale di comunicazione elettiva.
Pagano rende clandestina la sua poesia e sono ancora ignote le sue carte inedite, tranne qualche lirica. La sua attività di critico d’arte, di francesista colto e autodidatta, di organizzatore editoriale e culturale, è estranea al formarsi di un’ università a forte ipoteca patrimonialistica. Pagano si impegna poi come educatore nel Centro di rieducazione per minorenni.
La consapevolezza del tragico, l’addio ai miti del Sud, l’impossibilità e la necessità della redenzione, la percezione del moderno e dello spaesamento urbano. Vittorio Pagano non si presta facilmente all’interpretazione di epigono di un ermetismo barocco e meridionale, poeta di devozioni domestiche, virtuoso artefice di mimesi simboliste, maudit di provincia. Siamo piuttosto di fronte a un simbolismo tragico e secolarizzato, consapevole del moderno. Alfonso Gatto, Libero de Libero, Giorgio Caproni, Leonardo Sinisgalli, Vittore Fiore, lo stesso Vittorio Bodini , rappresentano una costellazione fraterna e rammemorante in cui Pagano attende di essere meglio situato. Macrì ricorda Pagano nel 1980, nel 1986 e infine nella prefazione all’ultima edizione del romanzo L’ora di tutti di Maria Corti, una delle ultime cose che ha scritto, sempre in una concezione benevola ma riduttiva di ermetismo barocco-meridionale. Lo stesso Macrì raccoglie e pubblica con una prefazione via via rimaneggiata le poesie di Bodini, ma ne fraintende volentieri lo spirito sovversivo e moderno, annegandolo in riferimenti archetipi e simbolici della terra-madre, idealizzando una provincia letteraria come “piccola patria” in una colta retorica della territorialità. Poi la chiacchiera accademica localistica si è sempre mossa parassitariamente sulle vecchie interpretazioni di Macrì, spesso aggravandole di moralismo e bigottismo, nel solco dell’incomprensione, del fraintendimento, dell’addomesticamento.
Per Vittorio Pagano la fine delle speranze e del dibattito del dopoguerra, la fine dello spazio autonomo di organizzazione culturale, coincide con il suo silenzio, con la sommersione del suo lavoro letterario, in parte con la solitudine e l’appartarsi. Il trauma dell’invasione dell’Ungheria del 1956 è sottotraccia, ma presente, in Pagano e in Bodini. I fermenti e le insorgenze collettive della fine degli anni sessanta, che molti leggono come un’accelerazione del processo di modernizzazione del paese e insieme di rinnovamento delle culture, contribuiranno ad aprire quelle porte che apparivano chiuse quando – ed era il maggio del 1945! – Pagano scriveva nel Lamento del “Provinciale”: “non abbiamo che finestre a cui affacciarci da tormentose altezze, senza porte da schiudere al mondo, stancamente pensosi d’una scala di seta che consenta l’ascesa di rinnegate presenze, col senso di una mirabolata avventura” (...)".
Silverio Tomeo